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QUO VADO di Checco Zalone

12 gennaio 2016 | Commenta

                Mi sono divertito, ho fatto quattro risate.
Il successo della pellicola riguarda il vezzeggiamento dell’idea tutta moderna della genialità degli italiani. I cervelli in fuga che tutti ci invidierebbero. Senza questa vulgata della creatività giovanile un bambino stagionato come Checco non potrebbe prendere in giro i dipendenti dell’amministrazione pubblica e non si potrebbe scrivere e descrivere il successo del jobs act. Un film governativo, al botteghino si sostiene il governo. Le primarie servono ad elaborare l’idea di successo, non a farsi eleggere in parlamento.
Eppure lo dicevano in tanti, per essere creativi ci vuole l’85% di perspiration, sangue sudore e lacrime e il 15% di inspiration. Qui è vero il contrario basta ficcare le dita in un bicchiere e sentire l’arsenico e il cadmio, cattivi e inquinanti come i pensionati d’oro.
L’altro motivo di consenso universale è lo sdoganamento del senso di colpa per lo zabaione a letto portato dalla mamma. Il complesso di colpa per essere edipici non c’è più, semplicemente perché il babbo è svanito o si è mammizzato, cioè non è in grado di contrastare l’indulgenza materna. Ne risulta un fanciullo ferito a morte, Edipo è cieco e incapace di ribellione e rifiuto.
Se i primi 15 minuti di AntiChrist di Lars von Triers è supercinema che cos’è Il principe Cenerentolo di Leonardo Pieraccioni? Se The Big Short di Adam McKay è cinema, che cos’è Natale col Boss di Lillo e Greg? Onesto intrattenimento?
Il cinema è molte cose in una, non è automaticamente arte. È un apologo filosofico, un episodio della diffusione di una visione del mondo, è intrattenimento, consolazione. A volte è un lacerto della carne dell’artista, a volte è discorso al popolo, altre volte un ruttino culturale delle élite intellettuali. Quattro o cinque funzioni ci sono sempre in varia miscela, arte più raramente, politica, pubblicità e ricerca sull’umano in vario grado di realizzazione e di penetrazione della vicenda narrata. Non è possibile fare un film senza un’intenzione politica, ma ancora più rilevante il film è grande fabbrica del simbolo, immediatamente milioni di persone condividono un codice, l’icona, il trattamento dell’immagine. Il simbolo, l’icona sono sempre antropofaghe, nature morte bisognose di vitalità, anzi proprio di vita umana, celebrano la vanitas della vita umana. Il cinema prende la partecipazione, la vita emotiva dello spettatore e rivitalizza la cosa, impedisce che il simbolo muoia [Per l’origine dell’indulgenza della mamma (meridionale) si potrebbe ridare un’occhiata a Ferito a morte di Raffaele LaCapria.]

 

Goffredo Carbonelli