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La Foresta dei Sogni (2015) di Gus Van Sant

8 maggio 2016 | commenta

I sogni non c’entrano niente, il pensiero onirico non crede ai fantasmi, alle non-persone, alla reincarnazione: semplicemente non crede.
Mettiamo che scompaia la persona che si ama (invito tutti ad abbondare negli scongiuri e nei toccamenti, attività impraticabile ai non cattolici), abbiamo modo di trovare sulla Terra un posto dove come anime in pena si possa perderci frantumandosi le ossa, sopravvivere espiando, un labirinto che ci faccia ritrovare la voglia di vivere oltre? Un mare di alberi dove disperdere le adorate ceneri per sentirci sempre abbracciati dalle sue molecole?
L’amore ha necessità di straordinarie prove del suo essere la qualità degli umani, magari chi non ha a disposizione un oceano verde dove suicidarsi ha più difficoltà dimostrative.
Dal punto di vita dottrinario pare che il Limbo sia stato dichiarato ex cathedra non più esistente, non che non c’è mai stato, ma che ora non c’è. È difficile abolire l’idea della creazione divina, d’altronde se Uno crea può anche disfare, come dice il babbo o la mamma incazzata al piccino discolo… io ti ho fatto io ti sfaccio.
Ho sentito dire che questo metodo di rinforzo della creatività in negativo sarà estesa al Purgatorio, l’importante è lasciare l’appannaggio della produzione della materia biologica vivente all’opera di Dio. La constatazione del male nel mondo renderebbe superfluo il peregrinare in una località intermedia di espiazione della colpa.
Dice il Giapponese, anima perduta nella foresta, che lui è spirituale, non crede nel dio degli occidentali, che quella foresta è l’equivalente del Purgatorio dell’uomo bianco. Eppure l’inferno in Terra era stato mostrato e parlato, i sofisticati, nemmeno tanto, dialoghi sadomasochistici, il mistero di una moglie diagnosticata alcolista efficiente, socialmente accettata, produttrice del reddito familiare, rimpianta da centinaia di corone di fiori sulla bara.
Chi manipola chi? Chi comanda nel rapporto?
È vero, si può convivere cento anni con qualcuno e non conoscerlo. Non perché si ignora il suo colore preferito o il suo libro preferito, ma semplicemente perché non sappiamo niente dell’epoca in cui il suo desiderio era rivolto a sconosciuti che le avrebbero fatto vivere un’altra vita ed acquisire un’identità diversa. Ottemperare ai doveri coniugali, sostenere un ruolo perfetto, recitare la parte didattica-ostensiva della coppia coniugale può lasciarci completamente ignoranti della identità dell’altro. È questo che lui sembra aver capito al funerale, prostrato davanti al più gentile e colto cassamortaro d’America.
Non è un film mistico. Matthew e Ken Watanabe non hanno visioni ultraterrene, non aspirano a vedere il Paradiso, sono prigionieri della natura animata, intenzionale, che ha una soggettività onnisciente e introspettiva, somministra pene e castighi adeguati, materia vivente non umana perversamente indirizzata a correggere il destino della disperazione.
L’orientale dice a più riprese che il suo dio è la vergogna, che non poteva sostenere più oltre di non poter badare alla sua famiglia, che l’americano non capirà mai come l’adesione al gruppo possa sostituire la morale cristiana. Una diluizione riuscita dell’individualità soggettiva nella comunità premia l’uomo virtuoso. Al contrario, se noi abbandoniamo i precetti comandati restiamo preda dell’irrazionalità dell’io e del suo narcisismo che ci porterà al disastro.
Il film non è piaciuto agli intenditori di cinema, più che altro per il vestire e svestire panni dei suicidi e per la mancanza di effetti terrorifici. Gli alberi non erano poi tanto cattivi. Non si tratta di un flop al botteghino, il fallimento è nell’idea che dall’Oriente possa venire una lezione ai rapporti deteriorati nel Massachusetts o a Tokyo, non c’è soluzione alternativa alla vita. A un certo punto lei, Naomi, gli ordina di prometterle che lui non dovrà morire in ospedale, ma scegliersi un posto straordinario per farla finita. Ditemi voi con queste premesse come si può fare un film di ricerca, un film sulla autonomia nel legame indissolubile e sacro? Perciò non funziona il film. Due bravi attori non possono recitare delle assurde scorciatoie a problemi reali, di tutti che richiedono qualcosa di diverso dell’elaborazione del lutto o dalla fuga nella spiritualità. Non si può semplificare senza aver descritto la complessità.

 

Goffredo Carbonelli