JOY di David O. Russell
9 Febbraio 2016 | Commenta
Nella meritoria opera di illustrazione e divulgazione della mente creatrice si iscrive questo film, tra quelli che non hanno per oggetto poco occulto, la genialità del regista. Ho visto Turner su William Turner, The Social Network su Zuckerberg, non vedrò Jobs su Steve Jobs. Uomini il cui talento ha avuto successo mentre erano vivi e potevano pagare il conto di persona.
Si parla di una storia divenuta esemplare, che non si può imitare, non già per la difficoltà a reperire finanziatoriin famiglia, maperché conta di più possedere i disegni originali che il programma digitale con cui si visualizzano. I disegni originali non stanno in un luogo, ma nella capacità di circoscrivere con un tratto, con una apparizione pubblica l’impossibilità a perdere la memoria. Lei, Joy, ha dei ricordi comuni coscienti, familiari, intervenuti nella vita del clan, una visione unica, soggettiva, indispensabile a tutti e che tutti usano osteggiandola. Lei è il senso.
Tutto questo non è detto che debba monetizzarsi, il diritto della proprietà intellettuale dovrà trovare una difesa al di là della competenza di mercato e della fondazione di una company. Ho dovuto vincere la sensazione di fastidio per la successione didattica, per la prevedibilità con cui si narravano i fatti. La genialità non è una velleità, una presunzione giovanile, non viene fuori automaticamente per insubordinazione e ribellione. Esiste, non è da interpretare.
Non c’è una sola scena di sesso, il che è insolito e fa riflettere se in molti casi sia superfluo mostrare il coito, di conseguenza dannoso. Banale non è inutile, il rapporto sessuale è sempre inutile e pertanto la sua necessità indispensabile. Più efficace è mostrare l’eros, i corpi che si intrecciano a volte è l’unico modo per dare la materialità della carne alle storie degli uomini e delle donne. Perché qui non ce ne è bisogno e va bene così?
Mi piace Luisa Ranieri. Ho visto una fiction italiana sulla vita di Luisa Spagnoli, è un’agiografia, in obbedienza alla peculiarità italiana del…santa subito…. Niente di tutto questo, eppure la pellicola ha i suoi momenti di equivoco nel descrivere la velocità del capitale a risolvere le necessità concrete, e di beatificare col successo i capitani coraggiosi dei bisogni indotti. Eppure qui si parla della funzione geniale mettendo sotto la lente di ingrandimento la storia di una donna che progetta utensili e il modo più moderno di venderli con l’uso della tv. Questo film non ha un target televisivo, è un tantino sgradevole, non cerca di compiacere il popolo televisivo.
Carriera, la carriera militare, quella ecclesiastica, quella dei professionisti. Possiamo chiamare carriera per esempio quella di Antonella Clerici, di Maria De Filippi, di Simona Izzo? Si può parlare di carriera per gli esseri umani che ampliamente usano il medium televisivo per narrare la loro biografia sessuale, sentimentale, turistica. Una iperevidenza che non lascia spazio, niente resta inespresso, tutto è detto. Ogni sacrificio è stato registrato e premiato, ormai è saldamente incistato nella coscienza del popolo televisivo. Tuttavia, non è chiaro quali siano state le rinunce e i rifiuti, le scelte ribelli, queste persone sono imitabili, convinte che tutte vorrebbero copiare le loro gesta.
Vi ricordate Martin Scorsese, L’età dell’innocenza? Basta rinunciare alle sregolatezze adulterine, alla passione irragionevole, e la società ti premia, Wall Street ti dà in mano la borsa, Daniel Day-Lewis deve rinunciare a Michelle Pfeiffer, (certo Winona Ryder non è donna di bellezza e qualità trascurabili). Rispettando la tradizione, conoscendo le leggi non scritte, una figura piacevole, modi gentili, una mente aperta, si arriva in alto, il talento viene sempre premiato.
Non è vero, si può affermare esattamente l’opposto, la carriera non è il successo. Il successo è un partito politico, la forma mediatica del partito.
Joy è una donna che ha un grande senso del dovere, la più potente forza che muove i corpi. Forse no, ce n’è un'altra ancora più irresistibile, l’esigenza interiore, l’insopprimibile istanza a dare materia alla propria immaginazione. Investire il reale con la fantasia, mostrare la natura concreta della soggettività. La realtà esiste solo se la pensi con l’immaginazione. La creatività non è divina, e le piaghe te le fai quando vai a mani nude incontro al sacrificio della tua esigenza per la soddisfazione dei bisogni di un altro. Il nucleo originario sono i pennarelli della figlia di Joy, i disegni che ne derivano, la scrittura nero su bianco della mano che insegue la linea che inventa. Per avere uno spirito di sacrificio inesauribile bisogna avere una nonna amorosa che vede oltre il tetto della casa, il cielo stellato e il tuo firmamento alla nascita, in sostanza qualcuno che non ha alcun dubbio sulla sanità della tua nascita e decreta che nella genealogia della tribù è arrivato il momento dove si dimostra che non si nasce figli. Una tribù talmente vasta di cugini, mamme e sorelle, zii, e seconde mogli del padre, da essere il mondo.
Bob de Niro è convinto di doversi comportare in modo democratico con le figlie, non ha altra strategia per sostenere l’invidia e la gelosia, perfino la Rossellini è invischiata nei giochi psicotici della famiglia, mostra l’essenza della malattia invidiosa nella epidemiologia infettiva. L’invidia è la malattia più contagiosa. La protagonista capisce che il riconoscimento, la prova del proprio valore è per negazione, la disconferma, il disconoscimento della differenza è l’unico modo che hanno tanti esseri umani di ratificare l’esistenza di ciò che non è stato perduto dell’identità irrazionale originaria.
E’ la storia una vicenda meramente americana? Che cosa di più pragmatico ci può essere che alleviare la fatica e liberare il tempo dal lavoro, delle trovate della nostra casalinga imprenditrice? Non si narra di passioni distruttive e di rivendicazioni di libertà nell’oggetto d’amore, non c’è nessun travaglio artistico, nessuna follia geniale.
Non so perché il regista abbia selezionato questa cronaca familiare, comunque tutto il film testimonia della falsità del nesso obbligatorio tra genio e pazzia.
E la autodistruttività del genio è provocata dall’odio che si genera nelle reazioni dei vicini, dei simili, dei compagni e fratelli che non si danno ragione di come pur partiti dalla stessa soglia, qualcuno riesca a fare un’immagine talmente diversa di sé, da volare lontano?
Goffredo Carbonelli