IL GIOVANE FAVOLOSO di Mario Martone
23 giugno 2015 | Commenta
Questo è un film sul suono della voce, sulla verità della poesia che regge all’ascolto, sulla ricerca della cecità che rende indispensabile la visione attraverso il rumore delle onde sonore umane. Il poeta non ha voce, chiunque legga la sua scrittura è lui, non canta per lui, è proprio lui. Constatare quale misterioso potere si celi nelle parole che rendono tutti uguali gli uomini e le donne che sentono la fine del silenzio per avere memoria del futuro, di ciò che non andrà mai perduto.
Il massimo della soggettività è il massimo della universalità. Due ore di film per la costruzione di un setting degno, una visione esterna coerente con la visione interiore de La Ginestra. Inoltrati in uno spazio profondo come il firmamento, una conoscenza in movimento, senza bussole o mappazioni, per orientarsi nella mente, la relazione con tutta l’umanità.
Opera meritoria del cinematografo la biografia di un uomo costitutivo del nostro essere italiani. Leopardi è il liceo e la giovinezza. Da piccoli andare nella casa dell’estate significava l’esperienza di vivere la sera e la notte senza luce elettrica, scorgere le ombre e animarle. Il cielo limpido di stelle ci aspettava al di là della paura con il suo incanto per convincerci che la notte genera il pensiero, e il pensiero dell’innamorato può inoltrarsi nella fredda galassia inconsapevolmente persuasi che il buio assoluto, il vuoto, il freddo assoluto è solo la perdita della gioia della diversità del corpo femminile. Il vuoto esiste solo nella testa degli uomini.
Giacomo non perde la fantasia e la donna che è in lui, il dolore per la privazione della ricompensa alla bellezza che sapeva inventare, si somma a quello della malattia, e ci cattura per la potenza con cui ci fa immaginare l’altro sesso come diversità psichica. Terribile constatare l’esistenza del femminile solo dentro di se, il passato perenne quindi anche il futuro. Leopardi è tutti i latini insieme e pareggia i lirici greci, un uomo che giustifica farsi interrogare alla cattedra per tutta la vita, come nei sogni quando non abbiamo studiato e bisogna andare perché prima o poi arriva sempre il nostro turno e tutto si paga anche il debito con Croce e l’idealismo romantico. E l’autore narra con piglio manzoniano il corpo e il colera, ci dice che la biografia è un ottimo escamotage per sostenere una trama completa, lo scorrere delle età e lo stupore per il nostro corpo che prima ci meraviglia con la sua potenza e poi ci chiede di sottrarsi al destino dell’identificazione col padre. Mi è piaciuto tanto il corpo a corpo del poeta col suo amico, un travaso di energie, una constatazione del genio senza oltraggio invidioso. Confortante l’arredo delle stanze delle pensioni e della villa sotto il Vesuvio e la cura con cui la sorella di Antonio Ranieri maneggiava gli scritti, mi viene in mente un’altra sorella che aggiusta postuma le opere, la sorella di Nietzsche, ma è una storia differente.
Quali sono le condizioni per voler fare un’opera biografica, non lo so. Sarebbe bello per esempio un lavoro sulla vita di Antonio Gramsci. Ci vuole una particolare fortuna del regista, che tipo d’amore ha sostenuto la disciplina di Martone fino a farne un film?
Goffredo Carbonelli