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Fai Bei Sogni (2016) di Marco Bellocchio

12 marzo 2017 | commenta

È come se il regista avesse voluto dimenticare tutto quello che sa della malattia mentale e di chi gliel’ha trasmesso. Tutto ciò che la sua ricerca personale e filmica ha prodotto di illustrazione della pazzia è scomparso.
Cessa la provocazione politica sulla bioetica, ci si affida alla psicologia fatua, quella della ribalta dei talk show.
È come stare dietro al cambio dei direttori delle testate giornalistiche, che ruotano, così i quotidiani finiscono con l’assomigliarsi. Non ricordo più perché smisi di comprare Il Manifesto, mi sento prossimo a licenziare La Repubblica.
Non perché l’Enciclopedista Scalari fosse più condividibile di Calabresi, ma nel vecchio la Storia prevaleva sulla biografia. Altri titoli, altri meriti novecenteschi avevano i direttori, per esempio c’era il Sud e il Nord, qualche importante redattore avrebbe riso e si sarebbe incazzato se Bossi avesse parlato della questione del Nord come fosse altro da quella meridionale, come se milioni di nordisti fossero dovuti emigrare a Misilmeri o a Gravina di Puglia.
Bellocchio certo non smobilita del tutto, un po’ di descrizione significante della vita, degli eventi rivelatori del malessere psichico la racconta. Un po’ dell’Erlebnis direbbero i fenomenologi persiste, la scena dello sbalordimento del ragazzino quando la mamma presa forse da stupor depressivo non scende dal tram, è rivelatrice.
Mi pare che Bellocchio abbia assunto il modo di guardare del popolo televisivo: la malattia mentale non si riconosce, esiste solo quando lo psichiatra ne fa diagnosi. Per negare l’esistenza della malattia mentale basta negare l’esistenza del medico della mente. Pensare che non c’è la malattia, ma il “disagio” che si cura con gli psicofarmaci, e tutto ciò è politicamente corretto. La malattia mentale è incivile e il mercato della psicoterapia vende il prontuario delle condotte e dei comportamenti con cui avere una prosopopea, cioè indossare il prosopon, la maschera delle condotte adeguate da mostrare in pubblico. Se il bambino se la cava e Gramellini sembra normale, vuol dire che il papà era affettuoso nonostante l’onnipotenza nel creare il segreto. Il babbo gli ha mantenuto un’immagine interiore di donna amata, quando lo porta vedere il Torino al Comunale. Va bene, un bambino non sa di vivere in un sistema pazzesco e disfunzionale, la totale condizione di dipendenza genitoriale è irrimediabile ed è affascinante che qualcuno provi a descrivere dall’interno il vissuto della creatura. Un bambino è totalmente la miscela delle sensibilità inconsce del babbo e della mamma.
Continua…
No, non ce la faccio. Non c’è ricerca sulla realtà psichica in Gramellini, nessuno spunto su possibili esiti sani della separazione o sulla violenza del vezzeggiamento del bambino. Nessun accostamento della propria vicenda ad un senso generale dell’essere assenti. Il suicidio impedisce la separazione e lo svezzamento, ed è un atto violentissimo. Resta solo lo stupore per le condotte incomprensibili degli adulti accostate all’incomprensibilità eterna e generale della condotta umana tout court.
Capisco l’ispirazione di Marco Bellocchio dal testo di Gramellini. Forse un volersi sentire più dentro l’attualità televisiva del cinema, un’italianissima, drammatica condizione.
Questo scrittore è un attore televisivo, ha una presenza didattica settimanale, regge le nuove visioni di rete assai bene, ma il cinema di Bellocchio tutto fatto di immagini vere perciò reali e inventate, era tutto interpretazione dei fatti e azione politica, non educazione delle masse. Gramellini è antropologo moderno, ha naso per lo spirito del tempo, scrive ottimi elzeviri, e li legge .
Non potrebbe mai condurre un gruppo, non parla a braccio, si rivolge ad autorità letterarie assenti, prepara la vendita di suoi libri, non suggerisce nessun appiglio per dirsi di una comune parte politica e per una qualunque pratica di cambiamento culturale reale, è annegato nel miele televisivo. Sono affezionato a Marco Bellocchio, come a un compagno di banco o un compagno di panca. Peccato, so che tornerà in sé.

 

Goffredo Carbonelli