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DALLAS BUYERS CLUB di Jean-Marc Vallée

30 luglio 2015 | Commenta

                Mi dicono che l’Accademy premia con regolarità i divi che perfezionano il personaggio infliggendo al loro corpo grandi sofferenze e modificazioni. Di recente Charlize Theron, ora Matthew McConaughey.
L’inferno in questo film è l’assistenza sanitaria americana, il suo essere governata dal mercato, la subalternità dell’agenzia federale per il controllo di farmaci e del cibo alle lobby.
Siamo in guerra, i reparti assomigliano alle strutture di emergenza nelle retrovie militari. I medici bravi e geniali non sono quelli di Grey’s anatomy, né il Dottor House o George Clooney, ma soggetti compassionevoli e, nonostante tutto, obbedienti ai protocolli efficaci perché lontani da ogni telecamera e riflettore, pur essendo abbigliati come Donald Sutherland in MASH.
Non si tratta di stabilire quanto sia efficace l’AZT, questo vorrebbe essere un film politico, ma è l’avventura di un eterosessuale nel mondo dell’Aids, è il confronto tra un soggetto che si ammala perché poliabusatore di sostanze e il bellissimo Jared Leto che distrugge il suo corpo nella lotta al padre che ha immensamente amato. E’ un film grezzo, malmostoso, affascinante, senza pretese teoriche. Anzi mostra tutte le conseguenze di una prassi senza teoria, la medicina non può procedere alla cura dell’AIDS senza riflessione sulla realtà psichica dell’omosessuale e dell’eterosessuale. Prevedibile, talvolta ricalca cliché di altre opere da Philadelphia a Erin Brockovich. In un certo senso va giù come la birra bevuta a fiumi, si inserisce in un filone, ribadisce il tentativo di fondare un genere catastrofico senza effetti virtuali, un disastro naturale dentro il sangue dell’uomo per discontrollo dell’impulso sessuale. Tuttavia, distrattamente, nel materiale raccolto c’è anche quello che conta, al centro delle visioni il pube in primo piano della spogliarellista nella lap dance al frastornato Matthew. Un’altra visione straordinaria sono il padre e il figlio di fronte. Mente e corpo, la razionalità dell’adulto che produce denaro, la fisicità del ragazzo che vuole piacere. Rayon mantiene una tensione irresistibile anche messo in ghingheri da giovane normale.
L’aspetto più originale della storia è la perfetta separazione tra il girone dei dannati, dei loro luoghi, di cura, di divertimento, di criminosità, di precarietà lavorativa e il resto della società. Una convivenza sull’orlo dell’abisso che ha lo scopo di produrre paura in tutti quelli che sono marginali a questo mondo, che per una ragione o per un’altra potrebbero essere coinvolti. La governance clinica dell’AIDS, anzi il suo fallimento, è stata usata per perfezionare il modello dell’incurabilità, la realtà psichica di chi cade nel baratro mostrata nella reale affinità con la psicologia del normale. Una colossale negazione dell’esigenza di coniugare sessualità e affettività. Su questo disconoscimento la medicina non poteva che organizzare un cordone sanitario precario, tutto basato sull’ignoranza di sé da parte dei sanitari, con le dovute eccezioni. Il film è dominato dall’evidenza della abolizione nella vita di tutti noi, non solo del tossicomane, del confine tra sostanze stupefacenti illecite e sostanze neurotrope legali. L’AIDS come metafora della natura costituzionalmente malata della specie umana, un legno storto che non si può raddrizzare.
Il protagonista nell’epoca migliore della sua resistenza alla malattia, peregrina tra Tokio e Amsterdam alla ricerca di Stati dove venga esclusa la figura medica come garante della prescrizione della medicina, ma non è possibile, l’incurabilità di una malattia non è l’incurabilità del genere umano. L’AIDS è coevo della massima espansione dell’era psicotropa, dell’errore che la sostanza chimica curi la mente, che mente e cervello siano la stessa cosa. Tutto il film è dominato dalla evidenza della difficile separazione nella vita di tutti noi, e non solo del tossicomane, tra sostanze stupefacenti illecite e sostanze neurotrope legali. E’ ovvio che il medico prescrittore di psicofarmaci venga vissuto come magico perché non sa come funziona la neurosostanza su se stesso, perché lo psicofarmaco non serve a conoscere i vissuti. Alla perniciosità di figure mediche assoggettate alla fede nella cura meramente chimica dell’AIDS, non c’è soluzione, bisogna prima passare attraverso la creazione di una scienza medica che voglia curare con l’irrazionale e voglia curare per guarire, che veda nella epidemiologia implacabile del morbo la scotomizzazione del rapporto mente corpo.
Tutta l’opera sembra preparata per far entrare Matthew McConaughey nell’Olimpo americano dei belli e dannati. Hollywood non recede mai dal compito di fornirci modelli di esistenza avanzati, difficili, più potenti della mera sopravvivenza. Invece in sottofondo si percepisce che qualcosa in questa funzione si è definitivamente deteriorato e ci dispiace. Un’epoca è tramontata, per andare a danzare con le farfalle il nostro protagonista deve andare a trovare il medico espulso dall’ordine che in Messico fa la sua ricerca privata. E’ la fede americana di poter accumulare tutti i disastri, tutti i danni collaterali, tanto la tecnologia e la scienza risolveranno il problema.  E’ come se nella straordinaria collaborazione delle farfalle ci fosse una nota sgradevole, la coscienza che l’uomo le sta sfruttando mantenendo con la natura il rapporto predatorio che mantiene con i simili. Prima la natura umana, poi la Natura.

 

Goffredo Carbonelli