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ASSASSINIO SULL’ORIENT EXPRESS

12 dicembre 2017 | commenta

C’è in giro un virus razzista che attacca le palme. Le potano, tagliano i loro ventagli secchi senza più oasi, resta un ceppo falloide, in erezione apata, eccitazione inspiegabile senza desiderio. Restano nei giardini a testimonianza che la linea della mafia era salita al Nord e il cappotto era sceso al Sud, come ci aveva avvertito Leonardo Sciascia, ma non è più discesa. Non basta trattenere in carcere Dell’Utri, non si può eleggere a dolce italiano l’onesto panettone, non si può affollare le mall e i supermarket di pile di bauli-tremarie-tartufoni. Tanto varrebbe lasciar fare all’animalista onorevole Maria Vittoria Brambilla o al sardonico Paolo Bonolis e creare il regno d’Italia affidato alla dinastia Berlusconide.
Branagh è inglesissimo, ma mai quanto Gigi Proietti che riproduce il Globe a Villa Borghese, a  testimonianza dell’inarrivabile superiorità del Bardo su tutti noi italiani teatranti ed altro. A meno che non si stia per la tesi che Shakespeare fosse italiano o addirittura di ceppo siculo, un antemarcia dell’esercito di camerieri e lavapiatti a Piccadilly e a Chelsea. Chiederò lumi al mio amico Stephen Greenblatt.
Monsieur Poirot è belga, in grado di persuaderci che l’eccentricità è normalità, mi riferisco al suo untuoso baffo pieno di aromi, lo sciagurato autore del kidnapping della bimba di Lindbergh è italiano. Inoltre un personaggio della setta dei lettori di Agatha Christie definisce a chiare lettere gli italiani inferiori pur essendo dei bianchi. La tavolata finale all’imbocco del tunnel che porterà alle guerre mondiali è il Congresso delle Nazioni a cui veniamo invitati come prototipo di criminali impuniti. Veleno e coltello è la nostra specialità, corruzione e lascivia.
Eppure l’italiano Johnny Depp è il più bello, un maschio ucciso, meglio di Camilleri che fa morire donne. Non resisto all’immagine che lo straordinario mustacchio di Poirot mi evoca: il colonialismo belga.
La Congregazione delle Nazioni, si tratta del gotha dei paesi colonialisti (sul colonialismo italiano stendiamo un velo pietoso), vuole decisamente l’inconscio perverso e cannibalico, confina negli incubi l’innocenza e la distruzione della sessualità. Per la teoria del genio pazzo devono essere in preda allo stupefacente J. L. Stevenson, William Blake, anche Modì e tutti gli altri, il giallo di van Gogh non si crea senza intossicazione da assenzio. Per rappresentare la visione di quello che non è ragione e non è coscienza bisogna essere malati perché ciò che non è ragione è malattia. Ancora fresco di stampa il libro sulla cocaina di Freud, doveva curare il raffreddore mentre ricchi e poveri si uccidevano di assenzio e oppio. Al festival dell’ipocrisia filistea del bianco colonialista, quello che produrrà James Bond, gli artisti si opporranno. Non solo l’istanza tossicofilica obbediva all’esigenza illusoria di incrementare la creatività e il talento, ma era l’unica difesa all’anaffettiva e alla puzza sotto il naso del perbenismo dominante che spaccia i segreti, gli scheletri nell’armadio chiamandoli inconscio perverso.
Laggiù lontano in Africa o in Estremo Oriente tutte le soverchierie e le prepotenze sono fuori dalla giustizia e del perdono del Dio dei bianchi.
Il successo presso il lettore italiano del genere giallo filmico o narrativo è direttamente proporzionale alla sfiducia tutta peninsulare nella Giustizia. Più si accumulano i faldoni nei Tribunali, più ritarda la sentenza, più essa si trasforma in prognosi infausta, diagnosi di tumore. La psichiatria diagnostica solo disturbi che durano tutta la vita, si assumano gli psicofarmaci per sempre, guai a sgarrare. La giustizia le va dietro, l’asseconda,  se la prende comoda, trasformare in espiazione l’attesa del giudizio. Non c’è la sentenza terrena, almeno c’è la certezza della pena: il carcere dottorato di ricerca in criminologia, Manicomio e T.S.O. autoinflitto.
Kenneth Branagh e i suoi dieci piccoli compagni di scena trasformano un film in teatro, molto bravi. Ruvido e poco credibile quel trambusto con ferita del detective, caduta sui tavolacci del ponte di legno per acchiappare fuggitivi. La trama piacevolmente prevedibile non doveva creare suspense. Lo scopo della pellicola è mostrare il familismo morale di una grande tribù anglofoba e europea contrapposto al familismo amorale latino-mediterraneo. D’altronde un inglese ha varato la nozione antropologica del familismo amorale per la nostra famiglia meridionale. Cosa Nostra è l’apoteosi della logica familistica, un distillato di indulgenza parentale.
Che straordinario campione di virtù civili e militari è il colonnello, padre della piccola rapita, per mettere insieme solidali la madrina, la cuoca, la nutrice, l’autista, l’attendente di campo?
E che genialità ha il male nel sapere scegliere un bersaglio così social e significativo?
Il male non è banale.
Il rapitore dimostra che la coscienza è fuggita dal mondo, quindi è lecito pensare che la giustizia sia fuggita con lei. Poirot delinea il quadro in cui ci si può fare giustizia da sé, si badi non vendetta. Un lussuoso treno bloccato sui Balcani è quasi il Congo Belga. Tutti colpevoli, tutti responsabili, nessun criminale.
Tuttavia l’assenza di senso di colpa del delinquente non è una labile coscienza, un benefico oblio, ma una lacuna cognitiva, una malattia morale. L’anaffettività è una malattia morale, pertanto finché esiste la malattia mentale non curata, non v’è crimine contro l’uomo che non sia pazzia. La malattia anaffettiva.
La mancanza di un setting che renda efficace la cura della pazzia, non l’affidamento alle quotidiane somministrazioni di neurosostanze della famiglia (morale/amorale?), rende inutile la correzione carceraria.
Radicalizzando, se non c’è medico della mente non c’è giudice, non solo, perfino la giusta perizia è rara senza esperienza di guarigione dello psichiatra.

 

Goffredo Carbonelli